Sonia Floris è l’unica che riesce a fare il saluto vulcaniano di Star Trek a casa. Ha provato a insegnarlo ai figli, ma non ci è mai riuscita. Le scene della sua vita coloratissima le scorrono a scatti davanti agli occhi mentre prova a riassumerle. Scandisce le parole più importanti con l’accento di Cagliari, di Stampace, che non ha mai perso, anche se ha girato il mondo per diventare prima grafica e poi aerografa, pittrice e body painter, la prima in Sardegna. Ora è tempo di decisioni, di anniversari e di ricordi.
Immagino lei abbia fatto il liceo artistico.
«Avrei voluto, ma i miei genitori mi consigliarono un’altra strada. Dopo due mesi di studi classici, mi sono iscritta all’allora Istituto Tecnico femminile Grazia Deledda. A Cagliari accadeva di tutto, in quegli anni. Soprattutto in casa mia».
In che senso?
«Mio padre era un antiquario, un battitore d’asta, un gallerista. Nei weekend, da quando avevo 11 anni, facevo il possibile per seguirlo nei suoi viaggi. Quante volte siamo stati a Porta Portese a comprare quadri! Era una magia. Grazie al suo lavoro, da noi hanno alloggiato anche diversi attori, Ugo Tognazzi su tutti. Sono cresciuta con due culture diversissime, padre italiano, madre tedesca: questo connubio mi ha arricchito molto».
Dopo la maturità, però, attraversa l’oceano.
«Sì: un anno e mezzo a Denver. Ho imparato l’inglese sul campo. Ma soprattutto ho imparato a vivere. Ho capito cosa volessero dire l’indipendenza, la libertà, l’altruismo. La lezione più grande di quegli anni è stata dividere quello che avevo: ho aiutato tanti senza tetto, lì ho visto la povertà».
E poi ha continuato gli studi.
«Tre anni all’Ucsd di San Diego. Diploma in Grafica e comunicazione visiva. E l’Accademia di Aerografia. Vivevo davanti alle onde che ora sfidano i surfisti. Mi servivano il mare e la luce, sono fondamentali per me. E infatti a casa non ho tende».
Perché è tornata?
«Per il lavoro di mio marito. La mia idea era quella di fare illustrazione. C’erano poche possibilità a Cagliari ma nessuna faceva al mio caso. Ho incominciato collaborando con studi d’arte, dipingevo a mano magliette. Poi divento mamma e apro il GAP Studio in via Napoli. Dopo qualche anno chiudo e mi trasferisco fuori città. Metto su un B&B e continuo a sperimentare la pittura su tutti i materiali. Poi cambia tutto».
Perché?
«Nel 2000 avevo dipinto sopra qualunque cosa tranne il corpo umano. È l’arte più veloce ed effimera di questo mondo: una doccia e va via. La collaborazione con la fotografia è fondamentale. Serve un modo per mantenere tutto».
Come sono state le prime esperienze?
«All’inizio dipingevo corpi femminili. Non è stato facile, c’era diffidenza. L’unica persona che mi aveva risposto per fare un primo progetto era Tamara Soro. Abbiamo fatto la prima competizione a Roma di pittura sul corpo. Di gare ne ho fatto tante: a Roma, a Modena, sul lago di Garda, alla prima manifestazione di Italian Body Painting Festival. La prima persona che mi ha dato fiducia nell’animazione è stata Mariano Pintus del Lagoon di Villasimius. Ho dipinto una volta al mese il suo staff nel locale, per diverse estati. Ho imparato il mestiere».
Ma non ha smesso di viaggiare.
«Mai: porto nel cuore i quindici giorni in Nuova Zelanda, un viaggio su strada dove ho approfondito la cultura tribale maori. Quello è l’unico paese anglosassone che non ha messo recinti alla civiltà natia».
Che cos’è un quadro?
«Uno specchio che non riflette un’immagine, ma un pensiero».
A cosa pensa se pensa al futuro?
«Mi fa paura non vedere che ne sarà di ciò che abbiamo e che abitiamo. Sono un’amante dell’analogica ma la tecnologia è straordinaria. Resisto cercando di rimanere una bambina di quasi 60 anni: quello sguardo non l’ho perso mai».
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